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Burundi, Quaresima 1970

By admin | marzo 29, 1970

“G.A.M. ‘12 UN IMPEGNO EFFICACE AL SERVIZIO DELLA VITA”

Mabayi (Burundi), Quaresima 1970

Carissimi,

stavolta il ritardo è eccezionale.
Mi dispiace davvero, ma proprio non sono riuscito a mettere giù con calma le quattro righe che
favoriscono il nostro incontro mensile.
Il motivo? Non è solo il molto lavoro.
E’ qualcosa d’altro che per ora mi sfugge. Al di là della stanchezza fisica che pure si fa sentire c’è la scoperta graduale di difficoltà più grosse. Dubbi e incertezze sono sempre più presenti nella nostra vita di missionari. E’ finito da un pezzo il tempo dell'”Abuna bianco” temuto e venerato, che impressiona gli indigeni con le sue costruzioni straordinarie e le medicine miracolose.
La civiltà bianca-occidentale non è più una sorpresa. Sotto certi aspetti materiali: casa, cibo, vestito e lavoro i nostri Barundi l’hanno accettata al volo e continuano a desiderarla. Se il loro livello di vita rimane uno dei più bassi dell’Africa Nera, la causa è profonda e « umana »: una mancanza cioè di aspirazioni elevate e una pigrizia secolare favorita dalla natura assai generosa. Un tempo (i maschi) si accontentavano di troppo poco: una casa, una donna (o due), e una birra. Adesso, anche le donne, si guardano attorno e vorrebbero qualcosa di più; ma tutto quello che è al di sopra della loro semplice vita quotidiana (es. scuola e assistenza medica), perde molto del suo fascino e interesse se richiede un po’ di sacrificio o un po’ di soldi.
Naturalmente chi ci soffre sono i figli, i piccoli. Ci vorranno decine di anni e un’educazione capillare di varie generazioni per spezzare questo cerchio di mediocrità esistenziale, di rassegnazione e di fatalismo che li blocca ad un livello che oggi non ha più senso.
Noi siamo qui per dare loro una mano; ma sappiamo bene che tocca a loro stessi costruirsi una vita degna della vocazione di ogni uomo. Si cerca di essere ottimisti, di badare al bene che spunta qua e là, di pensare al futuro che stiamo preparando… ma spesso abbiamo l’impressione di sbattere le ali nel vuoto, di parlare a gente che ci segue solo per interesse, di seminare sulle pietre.

D’accordo, questo è spesso il destino dei seminatori del Vangelo, e ne siamo convinti; nondimeno il peso di tale esperienza è assai duro. Quando ero giovane studente mi parlavano della solitudine dei Missionari; credo anzi di averla predicata anch’io varie volte, mi accorgo però che viverla di persona e tutta un’altra cosa.

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Da qualche settimana le cose non vanno bene.

E’ arrivata una febbre maligna che sta prendendo un po’ tutti, maestri e scolari, vecchi, donne e
bambini. E’ una febbre che toglie forze e appetito; rimbambisce la gente; non salutano e non parlano; oppure al contrario esplodono in forme di pazzia rumorosa, fino a scappare urlando dall’ospedale.
Ormai nell’ospedale-dispensario delle Suore non c’è più posto; sono pieni anche i corridoi e l’atrio, ma la gente continua ad arrivare a piedi e in barella, con la speranza di trovare un rimedio buono. I salassi e gli intrugli dei medici tradizionali (che volgarmente chiamiamo “stregoni”) non bastano; al dispensario del governo tutte le medicine sono finite da un pezzo.
Una settimana fa restavano quattro aspirine… e l’infermiere, con tutta la sua famiglia, era più ammalato degli altri.

E’ un bel guaio; e la gente non sa più che fare. E’ come stordita. Famiglie intere sono immobilizzate, gli operai lavorano senza lena, a ranghi ridotti; tre Suore sono fuori combattimento, e anche il Padre Ettore non riesce a smaltire questo malessere noioso. Era venuto per darci una mano, e si è preso la febbre …al nostro posto. Dispiace per lui, ma P. Mario ed io non abbiamo proprio il tempo di ammalarci: dalla fine di gennaio siamo impegnati nei ritiri pasquali in tutte le succursali. Sono come delle «grandi manovre» annuali, alle quali partecipa la stragrande maggioranza dei battezzati: molto lavoro, qualche avventura, e tanta grazia di Dio distribuita a piene mani.

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Già che siamo in argomento, vi accenno un po’ alla situazione sanitaria della nostra missione. So che fra gli amici del GAM c’è gente che può riflettere seriamente a queste cose…
Nelle valli che convergono su Mabayi siamo circa ventimila persone: non c’è un medico. Qui in Missione c’è il Dispensario delle Suore Burundese. Funziona anche la maternità e le due infermiere sono brave; ma qualunque complicazione è fatale per gli ammalati. Basta un parto difficile, una polmonite grave, un’appendicite acuta, o un’epidemia come quella in corso per mandare all’altro mondo tanta e tanta gente. Tifo, vermi e infezioni intestinali di ogni genere; malattie degli occhi, febbri e piaghe sono all’ordine del giorno; il tutto complicato da una mancanza assoluta di educazione igienica e da una malnutrizione cronica.
Le cose da fare sarebbero tante e belle. Basterebbe un medico in gamba con qualche collaboratore per fare miracoli.
A quarantacinque chilometri c’è la pianura e l’ospedale del Governo; un ospedaletto di provincia dove medico e medicine sono due cose difficili da trovare.
Poi c’è Bujumbura, la capitale, a 120 chilometri. La clinica con i dottori europei è riservata ai ricchi, ai capi, ai funzionari, ai bianchi, e, naturalmente ai preti. Ma nell’ospedale per la gente comune, per i neri qualunque, io non avrei più il coraggio di portare un amico; ho già provato con due persone e ne sono uscite cadaveri con la semplice motivazione: « morti di morte naturale »!.

Il primo è stato Paskali. Un giovane maestro che si era strappato dalla miseria con un coraggio ammirevole. Soffriva di asma, tuttavia ogni giorno faceva quattro ore di strada a piedi per andare ad insegnare in una scuoletta sperduta sulle montagne. In settembre, pagando una dote fortissima, si era preso la figlia dell’Amministratore; aveva battuto tutti i suoi colleghi: era fiero e contento.
Ma non ha resistito a lungo.
Un giorno di novembre me lo trovo al Dispensario delle Suore: sputa sangue e vuole scoppiare dalla tosse. Non sanno più cosa fare…
Eppure un maestro non si può lasciare morire così!
Allora via di volata a Bujumbura, la capitale dove c’è un grosso ospedale.
La discesa dalle montagne è un tormento; ma giunti nella piana la velocità dell’auto sembra ridargli un po’ di speranza. Anche la tosse si arresta.
« Coraggio, Paskali; ti rimetteranno a posto! ». Mi risponde con un soffio: « Fa presto Padre, non ne posso più! ».
A tempo di record siamo all’Ospedale. Macché cartelle e analisi preparatorie. Ci riceve un mezzo infermiere; un semplice braccio teso: «Andate laggiù, in quel padiglione… cercatevi un posto! ».
Paskali non si regge neanche. Lo portiamo a braccia all’interno. Cercarsi un posto? Ma dove? Nel grande salone oltre ai malati che occupano tutti i tetti, c’è tanta gente che occupa ogni angolo. E il medico dov’è? E il letto?
Ci guardiamo in silenzio,… quando l’unico infermiere del reparto si fa vivo, Paskali è sistemato su un letto insieme con un altro giovanotto. L’infermiere lo solleva in malo modo e comincia a tormentarlo. E’ un disastro. Per fargli un’iniezione calmante gli buca il braccio almeno venti volte senza trovare una vena buona; Paskali suda freddo e si lamenta; a me vengono i brividi e per poco non strappo la siringa di mano a quel buffone di infermiere.
Il medico non compare; non si sa neppure quando verrà. Paskali deve restare in quel letto a due… fin quando un malato lascerà l’ospedale. Per il cibo qualcuno dovrà pensarci a prepararlo, perché qui ognuno si arrangia da sé… l’infermiere scuote la testa: « Un caso serio. Chissà se abbiamo la medicina! ».
Esco amareggiato con la vista che mi si annebbia.
Una settimana dopo, in safari, proprio vicino alla sua scuola, mi portano un messaggio: ” Padre, guarda che Paskali è morto non verrà più ad insegnare ».

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La seconda volta è toccata ad una mamma.
Ancora giovane, forte, con tre bambini piccoli. Il quarto bambino non riusciva a nascere bene. L’ho portata a Buja (la capitale) di notte, sotto una bufera di vento e di acqua che faceva paura. Le Suore pregavano e l’auto sbandava continuamente; tre ore per percorrere una quarantina di chilometri…
Secondo l’infermiera sarebbe bastato un taglietto da niente; invece ci ha rimesso la vita.

* * *

Giorni fa un ragazzetto si è spaccato il femore… è sceso a Buja su un camion carico di banane; tornerà forse dopo Pasqua; ma ho paura di vederlo arrivare sciancato. E non sarebbe il primo caso!

Durante questa quaresima di buone esortazioni ne avrete sentite tante. Non ne voglio aggiungere altre. Io vi mando il mio saluto e il mio augurio, carico della riconoscenza di tanta gente alla quale per mezzo vostro possiamo fare del bene.
Buona Pasqua. Forza GAM. Ciao a tutti.
P. Gianni

Topics: '68 - '73 Burundi, Lettere Pasqua | No Comments »

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