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Korogocho, giugno 1991

By admin | giugno 1, 1991

SHALOM….sulle tracce di chi costruisce la PACE!

Korogocho (Nairobi), giugno ’91

Carissimi,

si può forse rinascere a cinquant’anni suonati?

Comincio a credere che la famosa richiesta di Gesù a Nicodemo (Gv. 3), il saggio fariseo che andò a trovarlo nottetempo, non fosse per niente esagerata. Anzi! E’ la proposta più ragionevole che andrebbe fatta a tutti, senza limiti di età: “Rinasci, ricomincia; non temere; buttati!” Basta che uno si senta ad una svolta, che intravveda la necessità di cambiare o rifare la vita.

Che senta il fascino o l’angoscia dell’impossibile utopia di riscrivere la vita da capo. lo gli direi senza alcun timore: “Non teme re, buttati!” La proposta va bene per tutti, ma per i cristiani, ad un certo momento della vita, è un dovere assoluto.
O si cambia o si muore! O si decide di seguire le proprie aspirazioni profonde o si rischia il fallimento e la delusione. Non possiamo sciupare la vita in scelte banali o mediocri.
Vi parlo per esperienza e vi assicuro che sto provando la sensazione di ricominciare la mia vita di missionario proprio da capo.
Non rigetto affatto i 25 anni già bruciati sui sentieri del mondo; sono stati splendidi e sono grato al Signore. Sono però convinto che essere qui a Korogocho è un dono bello e prezioso.
Non ricomincio da zero, certo! Ma ricomincio da un’angolatura diversa, da una prospettiva antica e nuova che mi obbliga a semplificare tutto. Ricomincio dal basso, dai poveri; con una presenza semplice e un’apertura che spero mi aiuterà a seguire meglio quel povero Cristo già incontrato tanti anni or sono.
Mentre ero in Zaire ho sentito che un confratello, P. Alex Zanotelli, aveva incominciato a lavorare in una baraccopoli di Nairobi. Ma era solo! Mi sembrava assurdo che un missionario con la
grinta e la visione di Alex fosse lasciato solo a percorrere una strada così chiaramente indicata dal Signore e confermata dalla Storia come una radicale alternativa allo stile di vita odierno,
dominato dall’egoismo, dalla violenza e dalla sete del denaro …
Ricominciare da capo, dall’essenziale, dal punto in cui sono partiti i vari Francesco, Comboni, Teresa di Calcutta, Carretto e mille altre innumerevoli testimoni del Vangelo che hanno rinno-
vato il mondo con la loro vita.
Quello che Alex stava facendo era la traduzione nei fatti di quanto per anni e anni aveva scritto sui giornali e riviste di mezza Italia. Era semplice coerenza e andava assolutamente incoraggiata.
Gli ho scritto e mi sono reso disponibile a camminare con lui.
La proposta è piaciuta anche a Roma e cosi sono stato trasferito dallo Zaire al Kenya.
La sfida delle città, il progetto di stabilire una presenza missionaria nella periferia di qualche città africana stava a cuore a P. Alex già da tempo. Fin dall’82 aveva presentato una richiesta ufficiale alla Direzione Generale dell’Istituto in tale senso; ma senza risultato.
Dopo l’esperienza infuocata alla direziono di Nigrizia e il suo allontanamento dalla Redazione nell’87, Alex aveva finalmente ottenuto di venire a Naìrobi. Ma fu accettato con sospetto dalla provincia del Kenya, proprio a causa della sua precedente attività di giornalista e a motivo della proposta radicale che aveva in mente: “Cosa diranno di noi se tu vai a vivere in baracca?” gli avevano opposto i confratelli che operavano nella zona da circa quindici anni. La sfida di Alex era chiara: non più assistere i poveri dall’esterno, ma immergersi nella loro realtà, nella loro vita, nei drammi quotidiani che fanno dell’esistenza di tanta gente un’autentica lotta per sopravvivere.
E qui seminare il Vangelo.
Una proposta così semplice e così logica spiazzava e spaventava tanti confratelli veterani della missione, fino al punto di spingerli a desiderare che Alex non venisse.
Figurarsi se Alex poteva rinunciare alle sue profonde convinzioni, maturate in lunghi anni di ricerca e di confronto sui temi e orizzonti più avanzati nella missione.
Secondo lui, andare a vivere negli slums (termine inglese per indicare le baraccopoli) con la gente, liberi da pesanti schemi e strutture, è il primo passo per affrontare seriamente il problema
dell’urbanizzazione che l’Africa sta vivendo da alcuni decenni.
Il tradizionale approccio missionario non serve; privilegia troppo le zone rurali, le savane, i gruppi isolati, le tribù marginalizzate su territori difficili da raggiungere, dove la Missione spesso rimpiazza lo Stato nei servizi fondamentali.
Una tale presenza, pur bella ed eroica, non basta più.
L’Africa, coinvolta in un processo mondiale inarrestabile, sta cambiando rapidamente.
L’Africa moderna, con i suoi problemi e i suoi valori sta nascendo nelle città. I nuovi poveri, i privilegiati della Missione, si stanno ammassando nelle periferie delle capitali e delle città più industrializzate; masse di proletari in balia dei giochi astuti delle grandi imprese transnazionali avide di mercati e di mano d’opera a basso costo.
La sfida delle città africane è da tempo una urgenza prioritaria per la Missione. Anche il Papa lo dice chiaro nella sua Enciclica “Redemptoris Missio”; è solo questione di coerenza e di coraggio.
E di coraggio Alex ne ha da vendere.
Appena imparato un po’ di kiswahili si era sistemato a Soweto: una mossa spericolata che gli aveva procurato un po’ di tensione con le autorità ecclesiastiche locali.
Più tardi, nel gennaio del 90, è venuto a Korogocho.
Qui l’ho raggiunto alla fine di febbraio di quest’anno. Sono già quattro mesi; eppure faccio ancora molta fatica a trasferire sulla carta le esperienze che sto vivendo. Provo quasi un senso di smarrimento di fronte alla enormità dei problemi, e al tempo stesso un senso di rispetto per queste migliaia di persone che da anni sopravvivono in una realtà così drammatica dove io sto muovendo appena i primi passi.
Korogocho: una realtà e un simbolo.
II nome stesso di questa baraccopoli è già significativo; in lingua kikuyu vuole dire “caos e disordine”. La sua storia è abbastanza recente.
I primi gruppi di gente sono arrivati a Korogocho negli anni trenta. All’inizio si è trattato di un processo lento e graduale; poi il ritmo degli insediamenti si è accelerato verso gli anni settanta
ed è diventato vertiginoso negli anni ottanta a causa degli esodi forzati da altre zone della città.
Quando i bulldozers del governo spianavano i quartieri abusivi di Grogon e Gitathuru per rimpiazzarli con nuove costruzioni per le classi più ricche; quando incendi dolosi divoravano le ca-
tapecchie di Mathare Valley, gran parte dei malcapitati prendevano la strada di Korogocho, verso est, verso gli aeroporti, oltre i limiti della città.
E’ da anni che il fenomeno è sotto gli occhi di tutti e si ripete periodicamente.
Man mano che c’è bisogno di spazi per i nuovi quartieri residenziali, i poveri devono sloggiare.
Non c’è scampo. E’ la logica del tipo di progresso reclamizzato oggi, che propone il Kenya come un paradiso dove conviene investire i propri capitali e passare mesi di vacanze in un ambiente di sogno. E’ la logica di un modello di sviluppo imposto dall’esterno; ma che coinvolge anche i politici locali in un gioco di complicità e di silenzi vergognosi. A niente servono, per ora, le proteste disperate degli sfrattati, i documenti severi delle varie chiese, le denunce della stampa e degli osservatori più sensibili e intelligenti.
Non solo Korogocho, ma tutti gli altri slums di Nairobi sono legati alla sua crescita economica e politica; alla sua forza di attrazione sulle masse rurali che a loro volta lasciano la terra a causa di una forte pressione sociale e demografica.
La popolazione del Kenya, infatti, cresce ad un ritmo che è fra i più elevati del mondo, mentre la terra produttiva è solo un terzo del territorio nazionale. La fuga verso la città è comprensibile;
ma non è la soluzione ai problemi della campagna.
La città non può offrire lavoro a tutti; la mano d’opera è esuberante rispetto al fabbisogno; le file davanti alle fabbriche non si esauriscono mai; le compagnie e le imprese, connivente la classe politica, hanno grossi margini di profitto, mentre i salari minimi sono da fame.
La città non può nemmeno offrire una casa a tutti: quando il 20% della popolazione possiede 1’80% delle aree residenziali, è chiaro che gli slums non si possono eliminare, ma diventano autentiche riserve di mano d’opera a basso prezzo cui la Nairobi ricca attinge per mantenere il suo stile di vita raffinato.
Le baraccopoli non sono nate e non sopravvivono per caso; sono piuttosto il frutto logico, naturale di un perverso sistema economico e politico. Quello che tutti conosciamo, quello di cui tutti noi siamo un po’ vittime e un po’ complici. Qui le Autorità al potere tentano accuratamente di nascondere un fenomeno che ha dimensioni incredibili.
Un rapporto preparato per conto del Governo, ma rimasto finora segreto, ammette l’esistenza di 78 baraccopoli. Inoltre rivela che su una popolazione che supera i due milioni, ben 40% degli abitanti di Nairobi vive in “insediamenti informali” (termine ipocrita per non dire baracche) e ha un reddito mensile (familiare) di circa 500 scellini kenyani, cioè 25.000 lire italiane.
Sapendo bene quanto prudenti siano le ammissioni dei politici che devono salvare la faccia di fronte al paese e all’estero, vi lascio immaginare quale sia la vera realtà. Molto peggiore.
Con i suoi 4 kilometri quadrati e oltre 80.000 abitanti la nostra Korogocho, insieme con Mathare Valley e Kibera forma il trio di punta delle baraccopoli più estese e popolate: un ben triste primato. Un vero mare di catapecchie ammucchiate al limite dei sopportabile, senza servizi igienici, senza luce, senza acqua, senza spazi adeguati: uno spettacolo drammatico e osceno.
Non un filo .d’erba; non un fiore!
E’ questa la dimora dell’uomo?
Come suona beffardo il salmo che dice: “Hai fatto l’Uomo di poco inferiore agli angeli”!.
Ma allora chi obbliga migliaia e migliaia di persone a vivere in ambienti così squallidi?
Korogocho è sorta in gran parte su un’antica discarica; i muri di fango di tante baracche tradiscono l’impasto dei rifiuti. Non esistono le fogne; il fondo roccioso impedisce ogni scavo.
Ognuno si arrangia come può; liquami e rifiuti finiscono sulle strade, si ammucchiano fra una baracca e l’altra. E’ uno spettacolo disgustoso a cui purtroppo gli abitanti si sono abituati.
E’ questo, forse, l’aspetto più amaro della realtà; l’assuefazione all’assurdo, alla degradazione. Anch’io ho paura di abituarmi a tutto questo.

Ho paura di abituarmi a vedere i bambini giocare incoscienti nel fango e nella melma, frugare nei rifiuti insieme alle galline, alle pecore, alle capre, alle anatre.
Dio mio, dov’è finito l’uomo. Buttato fuori sul letamaio; mentre la città giardino è riservata ad una minoranza di privilegiati. Qui, ai margini della “città del Sole”, della Nairobi che vuole giocare un
ruolo di metropoli moderna e rappresentare l’Africa del futuro, si sono ammucchiati i poveri che la fanno vivere.
Qui hanno trovato un momentaneo riparo, uno straccio di casa; ma non la risposta al loro diritto fondamentale ad avere una dimora stabile. Infatti la terra dove è sorta Korogocho è dello stato; tutti gli abitanti sono inquilini abusivi che, da un giorno all’altro, potrebbero essere spazzati via proprio da chi dovrebbe pensare a difenderli. Lo Stato, cioè il Partito unico al potere (KANU) sa di avere un’arma fortissima per controllare una massa che vive in tale situazione limite ma non ha altra scelta possibile. Nessun permesso di costruzione in solido viene dato ai privati per trasformare le loro baracche in abitazioni un po’ decenti. Oltre a stare nel fango devono anche portare l’angoscia di un futuro incerto.
La gente di Korogocho si rende conto dell’enorme ingiustizia di cui è vittima; ma per ora preferisce stare calma, come aggrappata a questa specie di zattera. Ma fino a quando?
E’ in questo contesto che la nostra Missione si sta svolgendo.
Nella forma più semplice e diretta a contatto con la gente, immersi nella loro vita. Camminando con loro e crescendo con loro in un confronto quotidiano con la parola di Dio. Cercando nel Vangelo e dentro di noi la forza per affrontare, come comunità le sfide cui tutta Korogocho è sottoposta.
Due piccoli locali sono tutta la nostra residenza: una stanza da letto che possiede ancora una certa privacy e un altro ambiente polifunzionale che è successivamente cucina, refettorio, sala di ricevimento per gli ospiti, luogo di incontri per i collaboratori più ristretti e, soprattutto, luogo di accoglienza per la gente.
La casa è aperta a tutti. Non ci sono limiti di orario. La gente lo sa e approfitta in pieno di questo diritto. La nostra scelta di non rimandare nessuno senza averlo prima ascoltato, a qualunque ora, è bella ma si paga cara. Non sei più padrone della tua vita, del tuo tempo, del tuo cibo, del tuo sonno. Sei in balia della gente a cui non pare vero di avere in mezzo a loro, notte e giorno, i Padri.
Quanta gente disperata ha trovato conforto; quante mamme affamate con i loro bambini; quante donne buttate fuori casa da mariti violenti e ubriachi; quante ragazze e giovani drogati e sbandati hanno passato un momento di dialogo con il Padre, hanno condiviso il pane e il thè, la polenta, i fagioli e soprattutto la Parola di Dio.
E sono tornati a casa sapendo di non essere più soli a portare il peso della loro sofferenza.
Negli anni passati la Chiesa di St. John a Korogocho era servita come una cappella succursale della grande parrocchia di Kariobangi. Un padre veniva a celebrare la Messa alla domenica e poi se ne tornava alla base, distante circa due chilometri.
In un contesto così difficile la Comunità cristiana si accontentava più che altro di sopravvivere. L’arrivo di Alex è stata una scossa salutare; una provocazione a leggere la realtà alla luce di un Vangelo capace di trasformarla; un aiuto prezioso a raccogliere le forze e ad affrontare insieme i problemi e le sfide più gravi.
Eccone alcune: la fame di cibo e di educazione, di Parola di Dio, di giustizia contro la violenza sociale ed economica, il bisogno di riconciliazione nelle famiglie frantumate, di sostegno alle madri sole con tanti bambini a carico, di aiuto ai ragazzi sbandati e drogati, di presenza accanto ai malati di Aids, di intervento nei casi di emergenza di malattia e di morte.
Alex da un anno e mezzo ha lavorato sodo, con un ritmo implacabile, senza concedersi soste.
Sono nate così dodici piccole comunità cristiane disseminate in tutti i vari quartieri. Al loro interno, lentamente, ciascuno sta imparando ad offrire un servizio a seconda della sua esperienza e delle sue doti, per rispondere ai bisogni della comunità. C’è chi segue i problemi della scuola, chi i poveri, chi gli alcolizzati, chi insegna la Parola di Dio, chi organizza la Liturgia, chi aiuta le vittime di ogni forma di ingiustizia, chi offre servizi pratici ai malati soli.
Sono segni preziosi della crescita lenta ma sicura della Comunità, della Chiesa radicata nel tessuto popolare.
Di questo cammino lento e pieno di meravigliose sorprese della Grazia vi terrò informati.
Intanto vi posso segnalare un progetto bello che sta andando avanti da gennaio e che ha coinvolto centinaia di famiglie, creando attorno alla nostra comunità un clima di simpatia.
Abbiamo recuperato dalla strada tanti ragazzi e ragazze che avevano abbandonato la scuola statale a causa delle tasse troppo alte da pagare. Abbiamo così messo in piedi una scuola elementare informale che inquadra circa 800 ragazzi, dalla prima alla ottava. L’idea è di offrire loro una educazione di base e, una volta superati questi momenti difficili, reinserirli nel ciclo educativo ufficiale.
Finora va tutto bene; i tredici maestri assunti dalla Comunità cercano di supplire con il loro entusiasmo ai limiti dei loro diplomi un po’ scarsi.
Visto il successo di questa iniziativa stiamo cercando di alleviare un po’ la fame cronica di questi bambini. Ogni giorno da oltre un mese un gruppo di donne prepara un piatto di mais e fagioli
(che qui chiamano “ghitheri”) per 2.500 bambini, tra Asilo, Scuola Informale della parrocchia e Scuola Elementare dello Stato.
Non potevamo fare discorso più chiaro ed efficace sul senso della Comunità Cristiana, preoccupata del bene di tutti, al di là dei confini di razza e di religione.
Ecco un primo sguardo alla nostra realtà: una presenza che aiuta la gente ad affrontare la vita senza lasciarsi schiacciare dai problemi pur gravi. Una presenza che rinforza la speranza di farcela, insieme, a costruire una nuova Korogocho; a “rinascere” come diceva Gesù a Nicodemo.
Sarà certamente un cammino lungo; non ci facciamo illusioni, per questo vi chiedo di stare in comunione con noi.
Alex vi saluta con me.

A tutti FORZA e SHALOM
p. Gianni

Topics: '91 - '96 Kenya | No Comments »

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